#DemocratizingWork: verso un modello di lavoro sostenibile

Un lavoro (in)sostenibile

Il 40% dei lavoratori vuole licenziarsi entro l’anno: il peso del burnout è in aumento.

La pandemia ha fatto luce su molte contraddizioni della nostra società, accelerando processi già in atto, come un intollerabile squilibrio economico basato su una cultura del lavoro performativo che antepone la produzione e il profitto al benessere fisico e psicologico delle persone.

Bisogna recuperare la dimensione etica del lavoro, il senso del limite. Il limite delle ore lavorate, delle attività erogate, dei rischi da correre, del salario da accettare, delle risorse da usare… Sia nella dimensione analogica che digitale è importante fare scelte consapevoli. Non va sottovalutato infatti anche il ruolo della responsabilità individuale: spesso sono utenti e clienti con le loro scelte nel mercato ad alimentare impieghi di cattiva qualità che poi diventano quella domanda di lavoro non qualificato di cui si lamentano.

Per contrastare questo fenomeno è necessario intervenire per un lavoro più giusto, che risponda ai bisogni delle persone e non del mercato. La sfida per una crescita diversa non passa quindi solo dalla transizione digitale ed ecologica, ma anche da un modello di sviluppo socialmente e umanamente sostenibile.

#DemocratizingWork

A maggio 2020 in piena crisi pandemica, tre accademiche e attiviste hanno lanciato un Manifesto basato su tre semplici idee: «È tempo di democratizzare le imprese, demercificare il lavoro e decarbonizzare l’ambiente».

Oggi quel Manifesto è stato firmato da più di 5.000 ricercatori di oltre 700 università di tutti i continenti, è stato pubblicato in 43 giornali di 36 paesi del mondo e tradotto in un totale di 27 lingue e ha dato origine a un movimento mondiale che dal 5 al 7 ottobre si è riunito nel Global Forum on #DemocratizingWork.

Il Global Forum ha visto 3.000 partecipanti provenienti da 85 paesi, quasi 400 relatori distribuiti tra plenarie e 16 capitoli nazionali per un totale di 129 panel tenuti in 9 lingue.

Anche il comitato scientifico italiano ha organizzato una serie di incontri e il confronto è ancora in corso. Se volete restare informati o entrare a far parte del comitato scientifico italiano potete scrivere a: democratizingwork2021it@gmail.com.

Le proteste dei riders: una battaglia di civiltà?

Lo scorso martedì 10 aprile alla Fondazione Feltrinelli di Milano si è svolto un incontro dal titolo “Algoritmo o cooperazione: le sfide per il lavoro al tempo della gig economy“. Organizzato da Luca De Biase di Nòva24, l’incontro si è basato sul confronto tra due piattaforme digitali molto diverse: la società di capitali britannica Deliveroo e la cooperativa veronese Doc Servizi. Prima che il dialogo avesse inizio sono entrati in scena alcuni manifestanti. Si trattava di un gruppo di riders di Deliveroo che, un istante prima che Matteo Sarzana, amministratore delegato di Deliveroo, prendesse la parola, si è frapposto con uno striscione tra i relatori e il pubblico.

Il contesto: la gig economy

Si osserva ogni giorno la crescita della “gig economy”, l’economia dei lavoretti, sostenuta dalla diffusione di piattaforme tecnologiche. Di fronte alla frammentazione e individualizzazione delle carriere, il mercato del lavoro si è infatti dotato di nuovi strumenti tecnologici. Questi permettono di gestire micro attività non strutturate, i lavoretti appunto. Si tratta principalmente delle attività di fattorini, i cosiddetti riders, o di autisti che si iscrivono alle piattaforme Uber o Lyft, o ancora degli ospiti che mettono a disposizione i loro appartamenti su AirBnb.

Il sistema economico di queste piattaforme digitali si basa sull’intermediazione del lavoro. Per offrire un’applicazione che permette di mettere in contatto con semplicità domanda e offerta le piattaforme richiedono una fee. Frapponendosi come mediatori tra domanda e offerta le piattaforme sostengono di non stabilire nessun rapporto di lavoro con i prestatori d’opera.

Basandosi sulla scalabilità del servizio, questo meccanismo ha raccolto molto interesse e portato un gran numero di queste realtà a diventare unicorn companies, ovvero realtà valutate oltre il miliardo di dollari sul mercato degli investimenti. Come Deliveroo stessa.

Le proteste dei riders

Il successo delle piattaforme digitali sembra però basato anche sul fatto che il “peso” del lavoro è fatto ricadere sui lavoratori stessi. Così almeno ha sostenuto il gruppo di riders di Deliveroo.

La manifestazione dei riders aveva un obiettivo principale: far sì che Deliveroo ammettesse di essere l’effettivo datore di lavoro dei fattorini per poi assumerli. «Deliveroo dice che siamo manager di noi stessi, ma non è vero, di fatto siamo lavoratori subordinati». Un’affermazione ancora più forte se si pensa che dal 19 febbraio Deliveroo ha introdotto il “pagamento a cottimo”. Una decisione legata al fatto che, ha spiegato poi Sarzana, «se si lavora a consegne si guadagna di più in meno tempo» – ma allora perché non pagarli semplicemente di più?

Una protesta oggi forse ancora più significativa dopo i risultati dell’udienza di Torino. L’11 aprile infatti Foodora – piattaforma digitale simile a Deliveroo – ha avuto la meglio contro sei riders che avevano fatto causa al colosso tedesco della distribuzione di cibo a domicilio. Il giudice del Tribunale del Lavoro di Torino ha respinto la richiesta di reintegro come lavoratori subordinati dopo aver perso il lavoro a seguito di una protesta svoltasi a gennaio 2016. I riders sono stati considerati come lavoratori autonomi e quindi non è stata riconosciuta loro nessuna tutela.

Caporalato digitale: quali alternative?

Al di là della scelta dei riders di andare in appello, le conseguenze di questa decisione sulla legittimazione delle piattaforme della gig economy sono ancora da vedersi. Anche perché, nonostante la sentenza, solo una decida di giorni fa l’ispettorato nazionale del lavoro ha deciso di contrastare le nuove forme di caporalato. Sembra prospettarsi però non solo una battaglia istituzionale, ma prima di tutto politica. Un’opposizione tra chi è a favore dei diritti e delle tutele e chi invece, in piena ottica neoliberista, si deresponsabilizza nascondendosi dietro il concetto di auto-imprenditoria.

Oltretutto, soluzioni al problema non mancherebbero.

Prima tra tutte l’applicazione del contratto intermittente, detto anche contratto a chiamata. L’utilizzo di tale contratto è stato suggerito non solo dall’avvocato dei fattorini di Foodora, ma anche da Chiara Chiappa, consulente del lavoro di Metis presente all’incontro del 10 aprile. Il contratto intermittente è infatti un contratto che permette di gestire il lavoro discontinuo garantendo comunque una relazione continuativa tra datore di lavoro e lavoratore. Perché Deliveroo, Foodora e tutte le piattaforme che lavorano in modo simile non lo applicano?

Una seconda pista è stata suggerita a Matteo Sarzana da Demetrio Chiappa, presidente di Doc Servizi: «Io al tuo posto prenderei al volo questa opportunità offerta dai manifestanti per diventare la Ferrari della distribuzione di pasti a domicilio. Dietro ogni persona c’è una potenzialità enorme, una potenzialità che può esprimere se siamo credibili, autentici e li tuteliamo. Quindi meglio costare di più: il cliente finale magari pagherà di più ma racconterai una storia che fa la differenza».

Un’affermazione che riassume l’approccio imprenditoriale che si trova dietro a Doc Servizi e che si può definire come diametralmente opposto rispetto a quello di Deliveroo e di molte altre piattaforme della sharing economy. Nella visione della cooperativa ogni persona è descritta come parte del patrimonio dell’azienda e proprio per questo ognuno va tutelato e valorizzato. «Cosa può succedere in una società di consumatori impoveriti?», ha aggiunto anche pragmaticamente il presidente della cooperativa.

Siamo chiaramente di fronte a due prospettive che si affrontano, in un confronto che sarà decisivo anche per il futuro del lavoro. Sostenere i fattorini non significa infatti solo combattere una battaglia in favore di una classe di lavoratori oggi dimenticati, ma combattere una battaglia di civiltà. Significa far sì che nessun lavoratore venga sfruttato sotto le false apparenze della libertà e dell’autonomia imprenditoriale che in realtà nascondono la schiavitù a quegli azionisti che fanno di queste società delle unicorn.

Eppure una domanda a questo punto sorge spontanea: la pelle del fattorino che brucia i rossi lungo le strade di una metropoli per guadagnare una manciata di euro in più vale davvero meno delle insaziabili esigenze degli azionisti?

Quali prospettive per chi si muove in un mercato incerto? Speciale settimana dei freelance

La settimana dedicata ai freelance non poteva cadere in un momento migliore – o peggiore, dipende sempre dal punto di vista. È infatti solo di pochi giorni fa la notizia che il cosiddetto “popolo della partita Iva” italiano ha subito nell’ultimo decennio delle perdite molto significative. Uno studio della Confeserscenti, nato dall’elaborazione dei recenti dati Istat sul mondo del lavoro italiano, mostra che dal 2008 l’Italia ha perso ben l’8,7% di iscritti (-514.000) al registro del lavoro con partita Iva. Un dato non confortante poiché annulla completamente la rimonta numerica del lavoro dipendente che è in corso dal 2008 (+513.000).

È in questo quadro che mercoledì 11 ottobre Base Milano ha fatto da sfondo a Works in Progress – Storie di nuovo lavoro, convegno organizzato da Acta in collaborazione con SMart in occasione della settimana europea dei freelance.

Già solo leggendo i titoli dei panel si vede che la giornata è orientata a offrire un aiuto alle difficoltà che affrontano ogni giorno i freelance o aspiranti tali: da come aprire la partita Iva a come definire un tariffario, dalla descrizione del brand alla contrattualistica fino all’analisi di pratiche di crowdfunding e la gestione dei tempi di lavoro. Tutti temi che chi lavora come freelance si trova ad affrontare da solo.

La giornata non è stata però solo l’occasione per orientarsi nelle complesse sfide di chi apre un’attività in proprio, ma anche per riflettere sulla figura del freelance e sulle prospettive e opportunità che offre il mercato del lavoro attuale.

La domanda di partenza è stata la seguente: chi è il freelance oggi?

Di fronte a una parola fluida come “freelance” non è infatti aleatorio cercare di capire non solo chi si identifica con questa denominazione ma anche come si concepisce e, soprattutto, come lavora.

La risposta alla domanda si è basata sulla presentazione di I-Wire, una recente ricerca sulle condizioni dei freelance svoltasi in nove paesi europei. Presentata da Anna Soru, Presidente di Acta, la ricerca ha fornito un’immagine interessante, anche se non molto rappresentativa – il campione italiano è di 826 intervistati – del mondo dei freelance italiani.

Al di là della varietà delle professioni (giornalisti, artisti, archeologi, archivisti, ecc.), un primo dato da sottolineare riguarda il fatto che circa l’80% degli intervistati ha dichiarato di svolgere più di una professione. La ragione di questo dato si situa, per determinati mestieri, come quelli del web, in una contiguità delle mansioni e professioni, dall’altro nella difficoltà di arrivare a fine mese con un solo lavoro (il 51% dichiara un reddito compreso tra 10-30.000 euro).

Questa difficoltà si riflette anche sulla percezione dei problemi vissuti da parte di questi lavoratori. Infatti il primo problema identificato dagli intervistati è proprio quello del reddito, generalmente ritenuto troppo basso. Un problema amplificato dal forte peso del fisco e dalla competitività tra freelance, che alle volte si trasforma anche in concorrenza sleale sulle tariffe, e che si collega anche con il tema dei bassi compensi percepiti per i lavori svolti. In questo quadro il welfare appare anche fortemente inadeguato per rispondere a una situazione lavorativa così fluida.

A fronte degli aspetti negativi, la maggior parte degli intervistati (63%) ha dichiarato di essere soddisfatto di lavorare come freelance sia per l’autonomia e la libertà nella gestione del tempo che offre sia per il contenuto del lavoro, usualmente considerato rispondente a interessi, competenze e attitudini del lavoratore.

Ma se questo è il punto di partenza, quali possono essere le prospettive per il futuro?

Consapevoli della sempre maggiore flessibilità del mercato, della difficoltà che ogni giorno incontrano i freelance non solo a farsi remunerare il giusto, ma proprio a farsi pagare a lavoro concluso, cosa si prospetta per il futuro?

La plenaria dal titolo Esiste un’alternativa all’uberizzazione del lavoro? ha voluto offrire uno spunto di riflessione sulla scorta dell’esperienza di SMart, partner di Acta nell’organizzazione della giornata. L’incontro si è basato infatti sulle riflessioni animate dal libro Rifare il mondo del lavoro di Sandrino Graceffa, amministratore delegato della società belga che da qualche anno ha aperto un’antenna anche in Italia.

SMart (Société Mutuelle pour Artistes) nasce in Belgio nel 1998 come piattaforma digitale che offre servizi di gestione dei contratti di lavoro degli artisti, le cui attività sono notoriamente discontinue e di burocrazia complessa, trasformandoli in contratti di lavoro dipendenti con diritti annessi. Nel giro di pochi anni il modello si rivela talmente efficace che non solo il numero di artisti cresce esponenzialmente, ma che anche altre categorie di lavoratori, come i fattorini, decidono di cominciare ad aderire. Ad oggi SMart è una cooperativa che conta in Belgio 85.000 membri e 12 uffici, mentre altre nuove strutture in fase di startup sono nate in altri 8 paesi europei, tra cui Francia, Spagna e Italia.

La forza di questo modello?

La semplicità di gestione del contratto di lavoro che si basa su un gestionale molto avanzato che permette di caricare autonomamente i dati del proprio lavoro e fatturare con semplicità saltando gli intermediari e scomoda burocrazia. Una vera manna dal cielo per tutti coloro che, sommando più lavori spesso discontinui, erano costretti a rivolgersi a più casse previdenziali e a gestire una burocrazia complessa senza aver accesso ad alcun diritto sociale. Ecco spiegata in modo molto semplificato, la ragione del successo di SMart in Belgio.

Un successo che spiega anche il desiderio di SMart di esportare il suo modello anche in altri paesi europei dove figure simili affrontano simili problemi: lavoro discontinuo, spesso di difficile burocrazia, senza diritti garantiti.

Il percorso di ampliamento di SMart è iniziato nel 2009 con la prima filiale in Francia, ma è una strada che ancora fatica a portare i frutti desiderati, come ha sottolineato anche Ivana Pais, sociologa dell’Università Cattolica di Milano che da anni studia le nuove forme di lavoro. In effetti, il modello di piattaforma digitale di SMart si è mostrato di difficile esportazione in Paesi dove il diritto del lavoro non solo è più complesso, ma basato su principi differenti da quello belga.

La gestione su piattaforma dei complessi meccanismi del lavoro di un qualunque paese europeo non può essere la stessa del Belgio, tant’è che la stessa filiale italiana – fondata nel 2013 con lo statuto di cooperativa sociale – ancora non possiede una piattaforma ma si basa unicamente sul lavoro certosino di dipendenti e consulenti esterni, come quelli di Acta, per gestire il lavoro dei suoi soci. Per costruire una piattaforma adatta al modello di lavoro italiano, cioè una piattaforma che non rischi di cadere sotto l’accusa di somministrazione illecita di lavoro – per dirla in altro modo, che non sembri uno spazio di compra-vendita del lavoro dei soci – servono ancora anni di studio, analisi e progettazione. E il risultato potrebbe anche essere diverso da quanto auspicato, anche se le grandi risorse della casa madre belga (200 milioni di euro nel 2016), la quale finanzia quasi interamente il progetto della startup italiana, fanno ben sperare.

Ma a questo punto vorrei fare un passo indietro, di prospettiva, e pormi una semplice domanda: c’è davvero bisogno di andare fino in Belgio per trovare un modello di lavoro in grado di offrire le garanzie del lavoro dipendente a professionisti che lavorano in modo discontinuo?

Esiste qualcosa di simile già in Italia?

Ovviamente sì. Già non solo ben prima dell’arrivo di SMart in Italia, ma anche prima della nascita di SMart in Belgio, sin dagli anni Settanta in Italia sono nati modelli di aggregazione di professionisti (medici, ingegneri, ecc.) strutturati sotto forma cooperativa e che avevano l’obiettivo di mutualizzare le risorse.

Volendo restare però nel quadro del lavoro discontinuo e dei freelance, un’esperienza particolarmente interessante nasce a Verona nel 1990 sotto il nome di Doc Servizi. Doc Servizi è una cooperativa di produzione e lavoro che ha come obiettivo non solo quello di gestire e coordinare il lavoro di coloro che operano nel campo dell’arte (musicisti, tecnici della musica, attori, ecc.), ma anche di permettere a queste figure di accedere a garanzie e tutele. Un meccanismo talmente efficace che ha portato a una grande crescita della cooperativa che oggi conta oltre 7.000 soci, 32 filiali in tutta Italia e 50 milioni di euro di fatturato previsti per il 2017.

Ad oggi Doc Servizi rappresenta in Italia un modello che permette di colmare il vuoto normativo e le difficoltà di applicazione del sistema previdenziale con potenzialità che vanno al di là del settore dello spettacolo. Motivo per il quale la cooperativa è al centro di un continuo processo di crescita basato sulla creazione di nuove cooperative in grado di rispondere alle esigenze di tutti i freelance professionisti che lavorano nel mondo dell’arte, della cultura e dello spettacolo, dagli insegnanti fino ai programmatori passando per i maker e i giornalisti.

Doc Servizi, più che una società, è quindi il cuore di una rete di cooperative e società che conta al suo interno anche partner di vario genere, come università, comuni, teatri, riviste, eventi, associazioni, fiere, ecc. Tutti nodi di un’unica rete che, nel rispetto del suo mandato di cooperativa di produzione e lavoro, Doc Servizi si impegna ad attivare e mettere in relazione per generare nuove opportunità di lavoro per i soci lavoratori.

E se i punti di forza di questo modello sono evidenti, quali ne sono i limiti?

Uno su tutti: la lentezza della legge italiana che fatica a comprendere l’innovazione sociale offerta da modelli cooperativi simili e che quindi ancora non ne ha riconosciuto l’originalità, a differenza di come è invece stato fatto in Francia con il modello delle Cooperative di Attività e di Impiego (CAE), ma questa è un’altra storia.

Il modello di lavoro Amazon: cosa si nasconde dietro la consegna in tempi record

Questo mondo della new economy, fatto di app, fatto di consegne in un’ora, è una cosa in teoria molto bella perché elimina tutte le barriere, ma le elimina sulla pelle dei lavoratori. E se questo è il futuro del lavoro, beh, questo futuro va decisamente cambiato.

Queste sono le frasi conclusive dell’interessante servizio di Valeria Castellano di La7 (video in fondo all’articolo) sulle condizioni di lavoro all’interno del colosso Amazon. Simone, ex-dipendente, ha vissuto in prima persona le difficoltà che i lavoratori affrontano nei magazzini e le sue conclusioni sono molto dure.

Il lavoro nei magazzini di Amazon viene descritto come una perenne lotta contro il tempo, con timer che suonano quando non sono rispettate le scadenze. Vi sono difficoltà a chiedere persino di andare alla toilette e, soprattutto, nessuna certezza contrattuale grazie anche al ruolo giocato dalle agenzie interinali.

Appare una realtà scarsamente sindacalizzata, quasi dimenticata, dove sembrano vigere le regole degli antichi – ma non troppo – taylorismo e fordismo più che i dettami di libertà ed espressione di sé nel lavoro che vengono oggi sempre più ad affermarsi proprio nella dimensione delle aziende della sharing economy.

Ma un conto è essere ai vertici e un altro lavorare nei magazzini.

Ecco che di nuovo l’antica divisione tra mente e braccio tipica del scientific managament riemerge in tutta la sua pregnanza: i magazzinieri sono braccia, “uomini-buoi” come affermava Taylor, sottomessi alle regole definite da coloro che appartengono al gruppo dei “pensanti”.

In queste condizioni il lavoratore rischia di perdere la propria umanità e di divenire un “uomo-macchina”. Egli è infatti concepito come uno strumento che si inserisce nel grande ingranaggio dell’azienda. Come un macchinario resta nel meccanismo finché funziona e svolge le attività previste, ma se si rompe deve essere riparato o sostituito.

L’attività del lavoratore si riduce allora a un insieme di gesti dal carattere eteronomo, scelti e imposti da altri. Il lavoratore infatti non possiede alcuno spazio di libertà e deve adattarsi ai tempi e luoghi scelti dal datore di lavoro, senza poter proferire parola.

Ma almeno, consapevole dell’usura psico-fisica dei ritmi della fabbrica, nella sua lungimiranza Henry Ford aveva deciso di offrire ai suoi operai alti salari e garanzie di vario genere. Ad oggi, dopo decenni di lotte per estendere i diritti accennati da Ford a tutti i lavoratori, ai magazzinieri di Amazon è invece offerto solo un basso stipendio senza nessuna garanzia di continuità.

E noi che ci troviamo dall’altra parte della tastiera pronti per fare un acquisto cosa possiamo fare?

A prescindere dai dettami di Amazon, è necessario tenere a mente che ogni lavoro è dignitoso, qualunque esso sia. Un primo passo verso il cambiamento è ricordarselo ogni volta che con un click acquistiamo una merce sul mercato virtuale di Amazon, perché, nonostante la cornice asettica, nonostante la facilità che noi abbiamo nel compiere quel semplice gesto con il mouse, non possiamo dimenticare che dietro a ogni pacco si trova il lavoro di esseri umani e non di macchine.

Foto: Magazzino di Amazon Spagna.

Il futuro è dei freelance? Alcuni miti da sfatare e una prospettiva

Il mercato del lavoro sta cambiando.

Quante volte abbiamo sentito questa frase negli ultimi anni?

Insieme a questa affermazione sempre più spesso si sentono le altrettanto frequenti: il mondo del lavoro è sempre più flessibile, le carriere e i percorsi sempre meno ordinari e più individualisti. O ancora il sempreverde: chi ormai lavora più tutta la vita nella stessa azienda? Ormai il contratto a tempo indeterminato ce lo sogniamo, presto saremo tutti autonomi, volenti o nolenti, freelance o precari, il posto fisso non esiste più… Un insieme di luoghi comuni che ad oggi rappresentano il modo più spontaneo per descrivere il mondo del lavoro. Oggi così si dibatte e ci si chiede quanto durerà ancora il lavoro salariato e se, di conseguenza, il futuro sarà davvero dei freelance.

Ma quanto queste affermazioni sono realistiche? E cosa sta davvero cambiando nel mondo del lavoro? È giusto, oltretutto, parlare di cambiamento, o forse si tratta più che altro di un ritorno verso un modo di lavorare che è da sempre appartenuto all’uomo occidentale?

Per rispondere a queste domande vanno sfatati tre miti

In primo luogo, va ricordato che i lavoratori non-dipendenti ad oggi non rappresentano la maggioranza dei lavoratori presenti nel mercato del lavoro europeo. Essi sono infatti il 23% degli occupati complessivamente in Italia contro l’11% in Francia (media del 14% in Europa).

Il secondo mito da sfatare è che anche se il lavoro e il lavorare accompagnano l’uomo sin dagli albori della sua storia, il lavoro salariato, dipendente con contratto a tempo indeterminato ha invece una storia recente. È infatti solo a seguito dell’industrializzazione che questo tipo di lavoro comincia ad affermarsi a discapito del lavoro indipendente e autonomo che era sempre stata la forma più diffusa di lavoro. In particolare, il momento di massima affermazione del lavoro salariato avviene con la “società industriale” e in particolare con il periodo detto “fordista-keynesiano”, che va dalla Seconda Guerra Mondiale fino alla crisi economica della prima metà degli anni Settanta.

Infine, va sottolineato che il lavoro autonomo di ieri è ben diverso da quello di oggi. Di fatto vi è un ritorno verso forme di lavoro autonomo e indipendente che già erano note prima dell’affermarsi del contratto di dipendente a tempo indeterminato. D’altro canto, queste forme di lavoro si affermano in modo diverso rispetto al passato, anche proprio a causa degli effetti che ha avuto il lavoro dipendente sul modo di concepire il lavoro nelle società occidentali.

Non si possono infatti dimenticare i decenni di lavoro salariato e le sue conquiste in termini di diritti e assistenza, garanzie che non sempre accompagnano il lavoro indipendente. Alcuni esempi sono la maturazione dei diritti sociali che in molti Paesi europei sembrano scomparire per il lavoratore autonomo nel momento in cui rinuncia (o si vede costretto a rinunciare) alla certezza del posto di lavoro fisso, l’isolamento, l’accesso alla formazione continua o ancora la gestione dei tempi del lavoro.

Detto questo, sebbene il mercato del lavoro prediliga ancora forme di lavoro salariato e dipendente, la flessibilità che si sta sempre più imponendo come fattore strutturale lascia immaginare che il numero dei lavoratori indipendenti non farà che crescere nei prossimi anni insieme al numero di lavori che ogni persona si troverà a svolgere nell’arco della vita.

Ma quindi il mercato del lavoro futuro vedrà una maggioranza di professionisti che lavoreranno in autonomia?

Sì e no. Perché se è vero che la flessibilità del mercato e la tendenza delle aziende a lavorare esternalizzando le mansioni è sempre più diffusa, altrettanto diffusi sono fenomeni che cercano di contrastare la posizione individualistica tipica del lavoratore indipendente.

All’autonomia, all’atomizzazione delle carriere e alla flessibilità propria del lavoro degli autonomi fa da contraltare un sempre più diffuso desiderio di incontro e coalizzazione, come dimostrano la nascita degli spazi di coworking, dei FabLab, gli hub, gli incubatori… o ancora i luoghi d’incontro virtuali dove scambiare conoscenze, strumenti, condividere vittorie o perplessità. Un altro esempio sono le pratiche di crowdfunding, nate per sostenersi a vicenda nel finanziamento dei propri progetti, o ancora i movimenti di coalizione dei precari. Infine, ricordiamo quelle cooperative che sperimentano nuovi statuti che situano il lavoratore a cavallo tra il lavoro dipendente, di cui hanno le garanzie, e quello indipendente, di cui hanno l’autonomia.

Tutte queste esperienze, seppur in modi differenti, ci raccontano l’esigenza di condivisione che i nuovi imprenditori e lavoratori indipendenti hanno e che sembra basarsi sul riconoscimento del bisogno di doversi associare ad altri per effettuare incroci di progetti, competenze e prospettive.

Anche se nel futuro la maggior parte dei lavoratori organizzerà il proprio lavoro con l’autonomia propria dell’attività freelance, molto probabilmente lo farà sempre più con il supporto di un’organizzazione che gli permetterà di affrontare il mercato insieme ad altri professionisti, abbattendo le forme di lavoro in isolamento vissute da chi lavora in modo indipendente.

Gli scandali di Uber e l’altro volto della sharing economy

«È ormai chiaro che i valori e l’idea di leadership che hanno caratterizzato la mia carriera non sono allineati con quello che ho visto e sperimentato in Uber. Non posso continuare a vestire i panni di presidente del business ride sharing», con queste parole Jeff Jones ha lasciato il ruolo di Presidente di Uber.

Toccata dall’ennesimo scandalo sessuale, il colosso da 62 miliardi di dollari ha visto la partenza del suo uomo di punta dopo solo sei mesi. Uno scandalo che va a sommarsi alle difficoltà che l’azienda sta subendo nell’affrontare anche i moti di rivolta dei tassisti, che se in Italia protestano da inizio 2017, in Francia hanno già impugnato i cartelli un anno prima e negli Stati Uniti da ben due anni.

La nuova crepa apertasi nella società americana mostra ancora una volta il doppio volto di questi giganti della sharing economy. Se, da un lato, essi offrono un servizio che amplia la concorrenza e favorisce quindi i consumatori, dall’altro non mancano le criticità rispetto ai diritti dei lavoratori, spesso infranti in favore di una concorrenza che diventa sleale.

In un sistema impermeabile alla concorrenza, dove le leggi rispecchiano una struttura salariale basata sul sistema dell’industria classica, a rimetterci sono prima di tutto i lavoratori. Per una società come Uber non valgono regole sul riposo o le indennità in caso di incidente o malattia: l’autista lavora quanto vuole, quando vuole, o meglio, finché riesce, e tanto basta.

I diritti dei lavoratori vengono messi in secondo piano favorendo gli antichi problemi di discriminazione e abusi nei loro confronti, come dimostrano anche gli scandali sessuali non poco frequenti a Uber.

Del resto, nella società americana non mancano nemmeno scandali legati a strategie aziendali poco trasparenti. Un esempio è stato l’obbligo a rinunciare all’utilizzo di una tecnologia che avrebbe permesso agli autisti di Uber di evitare la polizia nei paesi dove l’attività non è ancora autorizzata.

In un mondo ideale i sistemi basati sull’economia collaborativa potrebbero essere un ottimo strumento per meglio far incontrare domanda e offerta e contrastare il lavoro in nero. Ad oggi, però, diventano spesso nuovi modi per aggirare una legge obsoleta a favore del migliore guadagno. Nascono così le proteste di lavoratori che si vedono tagliare fette di mercato, come i tassisti, da gruppi internazionali – non dimentichiamo l’emergente Heetch – che non rispettano il lavoro e i lavoratori e si muovono sulle ambiguità della legislazione, se non del tutto oltre essa.

Tutto questo è colpa di giganti come Uber o Airbnb? Oppure di una rigidità legislativa?

Parafrasando Aristotele, la verità si trova nel mezzo. Il successo delle società della sharing economy mostra che esse sono effettivamente in grado di rispondere alle esigenze del mercato. Ma se questo non giustifica l’infrazione delle leggi, d’altro canto leggi nazionali e internazionali in grado di regolamentare la loro attività tardano ad arrivare.

Ironia della sorte, la strada da fare è ancora lunga. Quello che intanto possiamo fare noi consumatori è chiederci, ogni volta che mettiamo mano al portafoglio, chi stiamo finanziando e se davvero valga la pena di spendere qualche euro in meno invece che proteggere qualche diritto in più.

 

Foto: manifestazione dei tassisti di Portland (USA) contro Uber nel gennaio 2015.