Quali prospettive per chi si muove in un mercato incerto? Speciale settimana dei freelance

La settimana dedicata ai freelance non poteva cadere in un momento migliore – o peggiore, dipende sempre dal punto di vista. È infatti solo di pochi giorni fa la notizia che il cosiddetto “popolo della partita Iva” italiano ha subito nell’ultimo decennio delle perdite molto significative. Uno studio della Confeserscenti, nato dall’elaborazione dei recenti dati Istat sul mondo del lavoro italiano, mostra che dal 2008 l’Italia ha perso ben l’8,7% di iscritti (-514.000) al registro del lavoro con partita Iva. Un dato non confortante poiché annulla completamente la rimonta numerica del lavoro dipendente che è in corso dal 2008 (+513.000).

È in questo quadro che mercoledì 11 ottobre Base Milano ha fatto da sfondo a Works in Progress – Storie di nuovo lavoro, convegno organizzato da Acta in collaborazione con SMart in occasione della settimana europea dei freelance.

Già solo leggendo i titoli dei panel si vede che la giornata è orientata a offrire un aiuto alle difficoltà che affrontano ogni giorno i freelance o aspiranti tali: da come aprire la partita Iva a come definire un tariffario, dalla descrizione del brand alla contrattualistica fino all’analisi di pratiche di crowdfunding e la gestione dei tempi di lavoro. Tutti temi che chi lavora come freelance si trova ad affrontare da solo.

La giornata non è stata però solo l’occasione per orientarsi nelle complesse sfide di chi apre un’attività in proprio, ma anche per riflettere sulla figura del freelance e sulle prospettive e opportunità che offre il mercato del lavoro attuale.

La domanda di partenza è stata la seguente: chi è il freelance oggi?

Di fronte a una parola fluida come “freelance” non è infatti aleatorio cercare di capire non solo chi si identifica con questa denominazione ma anche come si concepisce e, soprattutto, come lavora.

La risposta alla domanda si è basata sulla presentazione di I-Wire, una recente ricerca sulle condizioni dei freelance svoltasi in nove paesi europei. Presentata da Anna Soru, Presidente di Acta, la ricerca ha fornito un’immagine interessante, anche se non molto rappresentativa – il campione italiano è di 826 intervistati – del mondo dei freelance italiani.

Al di là della varietà delle professioni (giornalisti, artisti, archeologi, archivisti, ecc.), un primo dato da sottolineare riguarda il fatto che circa l’80% degli intervistati ha dichiarato di svolgere più di una professione. La ragione di questo dato si situa, per determinati mestieri, come quelli del web, in una contiguità delle mansioni e professioni, dall’altro nella difficoltà di arrivare a fine mese con un solo lavoro (il 51% dichiara un reddito compreso tra 10-30.000 euro).

Questa difficoltà si riflette anche sulla percezione dei problemi vissuti da parte di questi lavoratori. Infatti il primo problema identificato dagli intervistati è proprio quello del reddito, generalmente ritenuto troppo basso. Un problema amplificato dal forte peso del fisco e dalla competitività tra freelance, che alle volte si trasforma anche in concorrenza sleale sulle tariffe, e che si collega anche con il tema dei bassi compensi percepiti per i lavori svolti. In questo quadro il welfare appare anche fortemente inadeguato per rispondere a una situazione lavorativa così fluida.

A fronte degli aspetti negativi, la maggior parte degli intervistati (63%) ha dichiarato di essere soddisfatto di lavorare come freelance sia per l’autonomia e la libertà nella gestione del tempo che offre sia per il contenuto del lavoro, usualmente considerato rispondente a interessi, competenze e attitudini del lavoratore.

Ma se questo è il punto di partenza, quali possono essere le prospettive per il futuro?

Consapevoli della sempre maggiore flessibilità del mercato, della difficoltà che ogni giorno incontrano i freelance non solo a farsi remunerare il giusto, ma proprio a farsi pagare a lavoro concluso, cosa si prospetta per il futuro?

La plenaria dal titolo Esiste un’alternativa all’uberizzazione del lavoro? ha voluto offrire uno spunto di riflessione sulla scorta dell’esperienza di SMart, partner di Acta nell’organizzazione della giornata. L’incontro si è basato infatti sulle riflessioni animate dal libro Rifare il mondo del lavoro di Sandrino Graceffa, amministratore delegato della società belga che da qualche anno ha aperto un’antenna anche in Italia.

SMart (Société Mutuelle pour Artistes) nasce in Belgio nel 1998 come piattaforma digitale che offre servizi di gestione dei contratti di lavoro degli artisti, le cui attività sono notoriamente discontinue e di burocrazia complessa, trasformandoli in contratti di lavoro dipendenti con diritti annessi. Nel giro di pochi anni il modello si rivela talmente efficace che non solo il numero di artisti cresce esponenzialmente, ma che anche altre categorie di lavoratori, come i fattorini, decidono di cominciare ad aderire. Ad oggi SMart è una cooperativa che conta in Belgio 85.000 membri e 12 uffici, mentre altre nuove strutture in fase di startup sono nate in altri 8 paesi europei, tra cui Francia, Spagna e Italia.

La forza di questo modello?

La semplicità di gestione del contratto di lavoro che si basa su un gestionale molto avanzato che permette di caricare autonomamente i dati del proprio lavoro e fatturare con semplicità saltando gli intermediari e scomoda burocrazia. Una vera manna dal cielo per tutti coloro che, sommando più lavori spesso discontinui, erano costretti a rivolgersi a più casse previdenziali e a gestire una burocrazia complessa senza aver accesso ad alcun diritto sociale. Ecco spiegata in modo molto semplificato, la ragione del successo di SMart in Belgio.

Un successo che spiega anche il desiderio di SMart di esportare il suo modello anche in altri paesi europei dove figure simili affrontano simili problemi: lavoro discontinuo, spesso di difficile burocrazia, senza diritti garantiti.

Il percorso di ampliamento di SMart è iniziato nel 2009 con la prima filiale in Francia, ma è una strada che ancora fatica a portare i frutti desiderati, come ha sottolineato anche Ivana Pais, sociologa dell’Università Cattolica di Milano che da anni studia le nuove forme di lavoro. In effetti, il modello di piattaforma digitale di SMart si è mostrato di difficile esportazione in Paesi dove il diritto del lavoro non solo è più complesso, ma basato su principi differenti da quello belga.

La gestione su piattaforma dei complessi meccanismi del lavoro di un qualunque paese europeo non può essere la stessa del Belgio, tant’è che la stessa filiale italiana – fondata nel 2013 con lo statuto di cooperativa sociale – ancora non possiede una piattaforma ma si basa unicamente sul lavoro certosino di dipendenti e consulenti esterni, come quelli di Acta, per gestire il lavoro dei suoi soci. Per costruire una piattaforma adatta al modello di lavoro italiano, cioè una piattaforma che non rischi di cadere sotto l’accusa di somministrazione illecita di lavoro – per dirla in altro modo, che non sembri uno spazio di compra-vendita del lavoro dei soci – servono ancora anni di studio, analisi e progettazione. E il risultato potrebbe anche essere diverso da quanto auspicato, anche se le grandi risorse della casa madre belga (200 milioni di euro nel 2016), la quale finanzia quasi interamente il progetto della startup italiana, fanno ben sperare.

Ma a questo punto vorrei fare un passo indietro, di prospettiva, e pormi una semplice domanda: c’è davvero bisogno di andare fino in Belgio per trovare un modello di lavoro in grado di offrire le garanzie del lavoro dipendente a professionisti che lavorano in modo discontinuo?

Esiste qualcosa di simile già in Italia?

Ovviamente sì. Già non solo ben prima dell’arrivo di SMart in Italia, ma anche prima della nascita di SMart in Belgio, sin dagli anni Settanta in Italia sono nati modelli di aggregazione di professionisti (medici, ingegneri, ecc.) strutturati sotto forma cooperativa e che avevano l’obiettivo di mutualizzare le risorse.

Volendo restare però nel quadro del lavoro discontinuo e dei freelance, un’esperienza particolarmente interessante nasce a Verona nel 1990 sotto il nome di Doc Servizi. Doc Servizi è una cooperativa di produzione e lavoro che ha come obiettivo non solo quello di gestire e coordinare il lavoro di coloro che operano nel campo dell’arte (musicisti, tecnici della musica, attori, ecc.), ma anche di permettere a queste figure di accedere a garanzie e tutele. Un meccanismo talmente efficace che ha portato a una grande crescita della cooperativa che oggi conta oltre 7.000 soci, 32 filiali in tutta Italia e 50 milioni di euro di fatturato previsti per il 2017.

Ad oggi Doc Servizi rappresenta in Italia un modello che permette di colmare il vuoto normativo e le difficoltà di applicazione del sistema previdenziale con potenzialità che vanno al di là del settore dello spettacolo. Motivo per il quale la cooperativa è al centro di un continuo processo di crescita basato sulla creazione di nuove cooperative in grado di rispondere alle esigenze di tutti i freelance professionisti che lavorano nel mondo dell’arte, della cultura e dello spettacolo, dagli insegnanti fino ai programmatori passando per i maker e i giornalisti.

Doc Servizi, più che una società, è quindi il cuore di una rete di cooperative e società che conta al suo interno anche partner di vario genere, come università, comuni, teatri, riviste, eventi, associazioni, fiere, ecc. Tutti nodi di un’unica rete che, nel rispetto del suo mandato di cooperativa di produzione e lavoro, Doc Servizi si impegna ad attivare e mettere in relazione per generare nuove opportunità di lavoro per i soci lavoratori.

E se i punti di forza di questo modello sono evidenti, quali ne sono i limiti?

Uno su tutti: la lentezza della legge italiana che fatica a comprendere l’innovazione sociale offerta da modelli cooperativi simili e che quindi ancora non ne ha riconosciuto l’originalità, a differenza di come è invece stato fatto in Francia con il modello delle Cooperative di Attività e di Impiego (CAE), ma questa è un’altra storia.

Il futuro è dei freelance? Alcuni miti da sfatare e una prospettiva

Il mercato del lavoro sta cambiando.

Quante volte abbiamo sentito questa frase negli ultimi anni?

Insieme a questa affermazione sempre più spesso si sentono le altrettanto frequenti: il mondo del lavoro è sempre più flessibile, le carriere e i percorsi sempre meno ordinari e più individualisti. O ancora il sempreverde: chi ormai lavora più tutta la vita nella stessa azienda? Ormai il contratto a tempo indeterminato ce lo sogniamo, presto saremo tutti autonomi, volenti o nolenti, freelance o precari, il posto fisso non esiste più… Un insieme di luoghi comuni che ad oggi rappresentano il modo più spontaneo per descrivere il mondo del lavoro. Oggi così si dibatte e ci si chiede quanto durerà ancora il lavoro salariato e se, di conseguenza, il futuro sarà davvero dei freelance.

Ma quanto queste affermazioni sono realistiche? E cosa sta davvero cambiando nel mondo del lavoro? È giusto, oltretutto, parlare di cambiamento, o forse si tratta più che altro di un ritorno verso un modo di lavorare che è da sempre appartenuto all’uomo occidentale?

Per rispondere a queste domande vanno sfatati tre miti

In primo luogo, va ricordato che i lavoratori non-dipendenti ad oggi non rappresentano la maggioranza dei lavoratori presenti nel mercato del lavoro europeo. Essi sono infatti il 23% degli occupati complessivamente in Italia contro l’11% in Francia (media del 14% in Europa).

Il secondo mito da sfatare è che anche se il lavoro e il lavorare accompagnano l’uomo sin dagli albori della sua storia, il lavoro salariato, dipendente con contratto a tempo indeterminato ha invece una storia recente. È infatti solo a seguito dell’industrializzazione che questo tipo di lavoro comincia ad affermarsi a discapito del lavoro indipendente e autonomo che era sempre stata la forma più diffusa di lavoro. In particolare, il momento di massima affermazione del lavoro salariato avviene con la “società industriale” e in particolare con il periodo detto “fordista-keynesiano”, che va dalla Seconda Guerra Mondiale fino alla crisi economica della prima metà degli anni Settanta.

Infine, va sottolineato che il lavoro autonomo di ieri è ben diverso da quello di oggi. Di fatto vi è un ritorno verso forme di lavoro autonomo e indipendente che già erano note prima dell’affermarsi del contratto di dipendente a tempo indeterminato. D’altro canto, queste forme di lavoro si affermano in modo diverso rispetto al passato, anche proprio a causa degli effetti che ha avuto il lavoro dipendente sul modo di concepire il lavoro nelle società occidentali.

Non si possono infatti dimenticare i decenni di lavoro salariato e le sue conquiste in termini di diritti e assistenza, garanzie che non sempre accompagnano il lavoro indipendente. Alcuni esempi sono la maturazione dei diritti sociali che in molti Paesi europei sembrano scomparire per il lavoratore autonomo nel momento in cui rinuncia (o si vede costretto a rinunciare) alla certezza del posto di lavoro fisso, l’isolamento, l’accesso alla formazione continua o ancora la gestione dei tempi del lavoro.

Detto questo, sebbene il mercato del lavoro prediliga ancora forme di lavoro salariato e dipendente, la flessibilità che si sta sempre più imponendo come fattore strutturale lascia immaginare che il numero dei lavoratori indipendenti non farà che crescere nei prossimi anni insieme al numero di lavori che ogni persona si troverà a svolgere nell’arco della vita.

Ma quindi il mercato del lavoro futuro vedrà una maggioranza di professionisti che lavoreranno in autonomia?

Sì e no. Perché se è vero che la flessibilità del mercato e la tendenza delle aziende a lavorare esternalizzando le mansioni è sempre più diffusa, altrettanto diffusi sono fenomeni che cercano di contrastare la posizione individualistica tipica del lavoratore indipendente.

All’autonomia, all’atomizzazione delle carriere e alla flessibilità propria del lavoro degli autonomi fa da contraltare un sempre più diffuso desiderio di incontro e coalizzazione, come dimostrano la nascita degli spazi di coworking, dei FabLab, gli hub, gli incubatori… o ancora i luoghi d’incontro virtuali dove scambiare conoscenze, strumenti, condividere vittorie o perplessità. Un altro esempio sono le pratiche di crowdfunding, nate per sostenersi a vicenda nel finanziamento dei propri progetti, o ancora i movimenti di coalizione dei precari. Infine, ricordiamo quelle cooperative che sperimentano nuovi statuti che situano il lavoratore a cavallo tra il lavoro dipendente, di cui hanno le garanzie, e quello indipendente, di cui hanno l’autonomia.

Tutte queste esperienze, seppur in modi differenti, ci raccontano l’esigenza di condivisione che i nuovi imprenditori e lavoratori indipendenti hanno e che sembra basarsi sul riconoscimento del bisogno di doversi associare ad altri per effettuare incroci di progetti, competenze e prospettive.

Anche se nel futuro la maggior parte dei lavoratori organizzerà il proprio lavoro con l’autonomia propria dell’attività freelance, molto probabilmente lo farà sempre più con il supporto di un’organizzazione che gli permetterà di affrontare il mercato insieme ad altri professionisti, abbattendo le forme di lavoro in isolamento vissute da chi lavora in modo indipendente.