Le proteste dei riders: una battaglia di civiltà?

Lo scorso martedì 10 aprile alla Fondazione Feltrinelli di Milano si è svolto un incontro dal titolo “Algoritmo o cooperazione: le sfide per il lavoro al tempo della gig economy“. Organizzato da Luca De Biase di Nòva24, l’incontro si è basato sul confronto tra due piattaforme digitali molto diverse: la società di capitali britannica Deliveroo e la cooperativa veronese Doc Servizi. Prima che il dialogo avesse inizio sono entrati in scena alcuni manifestanti. Si trattava di un gruppo di riders di Deliveroo che, un istante prima che Matteo Sarzana, amministratore delegato di Deliveroo, prendesse la parola, si è frapposto con uno striscione tra i relatori e il pubblico.

Il contesto: la gig economy

Si osserva ogni giorno la crescita della “gig economy”, l’economia dei lavoretti, sostenuta dalla diffusione di piattaforme tecnologiche. Di fronte alla frammentazione e individualizzazione delle carriere, il mercato del lavoro si è infatti dotato di nuovi strumenti tecnologici. Questi permettono di gestire micro attività non strutturate, i lavoretti appunto. Si tratta principalmente delle attività di fattorini, i cosiddetti riders, o di autisti che si iscrivono alle piattaforme Uber o Lyft, o ancora degli ospiti che mettono a disposizione i loro appartamenti su AirBnb.

Il sistema economico di queste piattaforme digitali si basa sull’intermediazione del lavoro. Per offrire un’applicazione che permette di mettere in contatto con semplicità domanda e offerta le piattaforme richiedono una fee. Frapponendosi come mediatori tra domanda e offerta le piattaforme sostengono di non stabilire nessun rapporto di lavoro con i prestatori d’opera.

Basandosi sulla scalabilità del servizio, questo meccanismo ha raccolto molto interesse e portato un gran numero di queste realtà a diventare unicorn companies, ovvero realtà valutate oltre il miliardo di dollari sul mercato degli investimenti. Come Deliveroo stessa.

Le proteste dei riders

Il successo delle piattaforme digitali sembra però basato anche sul fatto che il “peso” del lavoro è fatto ricadere sui lavoratori stessi. Così almeno ha sostenuto il gruppo di riders di Deliveroo.

La manifestazione dei riders aveva un obiettivo principale: far sì che Deliveroo ammettesse di essere l’effettivo datore di lavoro dei fattorini per poi assumerli. «Deliveroo dice che siamo manager di noi stessi, ma non è vero, di fatto siamo lavoratori subordinati». Un’affermazione ancora più forte se si pensa che dal 19 febbraio Deliveroo ha introdotto il “pagamento a cottimo”. Una decisione legata al fatto che, ha spiegato poi Sarzana, «se si lavora a consegne si guadagna di più in meno tempo» – ma allora perché non pagarli semplicemente di più?

Una protesta oggi forse ancora più significativa dopo i risultati dell’udienza di Torino. L’11 aprile infatti Foodora – piattaforma digitale simile a Deliveroo – ha avuto la meglio contro sei riders che avevano fatto causa al colosso tedesco della distribuzione di cibo a domicilio. Il giudice del Tribunale del Lavoro di Torino ha respinto la richiesta di reintegro come lavoratori subordinati dopo aver perso il lavoro a seguito di una protesta svoltasi a gennaio 2016. I riders sono stati considerati come lavoratori autonomi e quindi non è stata riconosciuta loro nessuna tutela.

Caporalato digitale: quali alternative?

Al di là della scelta dei riders di andare in appello, le conseguenze di questa decisione sulla legittimazione delle piattaforme della gig economy sono ancora da vedersi. Anche perché, nonostante la sentenza, solo una decida di giorni fa l’ispettorato nazionale del lavoro ha deciso di contrastare le nuove forme di caporalato. Sembra prospettarsi però non solo una battaglia istituzionale, ma prima di tutto politica. Un’opposizione tra chi è a favore dei diritti e delle tutele e chi invece, in piena ottica neoliberista, si deresponsabilizza nascondendosi dietro il concetto di auto-imprenditoria.

Oltretutto, soluzioni al problema non mancherebbero.

Prima tra tutte l’applicazione del contratto intermittente, detto anche contratto a chiamata. L’utilizzo di tale contratto è stato suggerito non solo dall’avvocato dei fattorini di Foodora, ma anche da Chiara Chiappa, consulente del lavoro di Metis presente all’incontro del 10 aprile. Il contratto intermittente è infatti un contratto che permette di gestire il lavoro discontinuo garantendo comunque una relazione continuativa tra datore di lavoro e lavoratore. Perché Deliveroo, Foodora e tutte le piattaforme che lavorano in modo simile non lo applicano?

Una seconda pista è stata suggerita a Matteo Sarzana da Demetrio Chiappa, presidente di Doc Servizi: «Io al tuo posto prenderei al volo questa opportunità offerta dai manifestanti per diventare la Ferrari della distribuzione di pasti a domicilio. Dietro ogni persona c’è una potenzialità enorme, una potenzialità che può esprimere se siamo credibili, autentici e li tuteliamo. Quindi meglio costare di più: il cliente finale magari pagherà di più ma racconterai una storia che fa la differenza».

Un’affermazione che riassume l’approccio imprenditoriale che si trova dietro a Doc Servizi e che si può definire come diametralmente opposto rispetto a quello di Deliveroo e di molte altre piattaforme della sharing economy. Nella visione della cooperativa ogni persona è descritta come parte del patrimonio dell’azienda e proprio per questo ognuno va tutelato e valorizzato. «Cosa può succedere in una società di consumatori impoveriti?», ha aggiunto anche pragmaticamente il presidente della cooperativa.

Siamo chiaramente di fronte a due prospettive che si affrontano, in un confronto che sarà decisivo anche per il futuro del lavoro. Sostenere i fattorini non significa infatti solo combattere una battaglia in favore di una classe di lavoratori oggi dimenticati, ma combattere una battaglia di civiltà. Significa far sì che nessun lavoratore venga sfruttato sotto le false apparenze della libertà e dell’autonomia imprenditoriale che in realtà nascondono la schiavitù a quegli azionisti che fanno di queste società delle unicorn.

Eppure una domanda a questo punto sorge spontanea: la pelle del fattorino che brucia i rossi lungo le strade di una metropoli per guadagnare una manciata di euro in più vale davvero meno delle insaziabili esigenze degli azionisti?

Il modello di lavoro Amazon: cosa si nasconde dietro la consegna in tempi record

Questo mondo della new economy, fatto di app, fatto di consegne in un’ora, è una cosa in teoria molto bella perché elimina tutte le barriere, ma le elimina sulla pelle dei lavoratori. E se questo è il futuro del lavoro, beh, questo futuro va decisamente cambiato.

Queste sono le frasi conclusive dell’interessante servizio di Valeria Castellano di La7 (video in fondo all’articolo) sulle condizioni di lavoro all’interno del colosso Amazon. Simone, ex-dipendente, ha vissuto in prima persona le difficoltà che i lavoratori affrontano nei magazzini e le sue conclusioni sono molto dure.

Il lavoro nei magazzini di Amazon viene descritto come una perenne lotta contro il tempo, con timer che suonano quando non sono rispettate le scadenze. Vi sono difficoltà a chiedere persino di andare alla toilette e, soprattutto, nessuna certezza contrattuale grazie anche al ruolo giocato dalle agenzie interinali.

Appare una realtà scarsamente sindacalizzata, quasi dimenticata, dove sembrano vigere le regole degli antichi – ma non troppo – taylorismo e fordismo più che i dettami di libertà ed espressione di sé nel lavoro che vengono oggi sempre più ad affermarsi proprio nella dimensione delle aziende della sharing economy.

Ma un conto è essere ai vertici e un altro lavorare nei magazzini.

Ecco che di nuovo l’antica divisione tra mente e braccio tipica del scientific managament riemerge in tutta la sua pregnanza: i magazzinieri sono braccia, “uomini-buoi” come affermava Taylor, sottomessi alle regole definite da coloro che appartengono al gruppo dei “pensanti”.

In queste condizioni il lavoratore rischia di perdere la propria umanità e di divenire un “uomo-macchina”. Egli è infatti concepito come uno strumento che si inserisce nel grande ingranaggio dell’azienda. Come un macchinario resta nel meccanismo finché funziona e svolge le attività previste, ma se si rompe deve essere riparato o sostituito.

L’attività del lavoratore si riduce allora a un insieme di gesti dal carattere eteronomo, scelti e imposti da altri. Il lavoratore infatti non possiede alcuno spazio di libertà e deve adattarsi ai tempi e luoghi scelti dal datore di lavoro, senza poter proferire parola.

Ma almeno, consapevole dell’usura psico-fisica dei ritmi della fabbrica, nella sua lungimiranza Henry Ford aveva deciso di offrire ai suoi operai alti salari e garanzie di vario genere. Ad oggi, dopo decenni di lotte per estendere i diritti accennati da Ford a tutti i lavoratori, ai magazzinieri di Amazon è invece offerto solo un basso stipendio senza nessuna garanzia di continuità.

E noi che ci troviamo dall’altra parte della tastiera pronti per fare un acquisto cosa possiamo fare?

A prescindere dai dettami di Amazon, è necessario tenere a mente che ogni lavoro è dignitoso, qualunque esso sia. Un primo passo verso il cambiamento è ricordarselo ogni volta che con un click acquistiamo una merce sul mercato virtuale di Amazon, perché, nonostante la cornice asettica, nonostante la facilità che noi abbiamo nel compiere quel semplice gesto con il mouse, non possiamo dimenticare che dietro a ogni pacco si trova il lavoro di esseri umani e non di macchine.

Foto: Magazzino di Amazon Spagna.