Le teorie del complotto e il terreno fertile della disinformazione

Perché è così difficile dissuadere i complottisti dalle loro idee? Come mai in tanti si avvicinano alle teorie del complotto e, soprattutto, come mai finiscono per crederci? Sono domande che spesso mi sono posta e alle quali provo a dare una risposta in questo articolo.

La maggior parte delle disuguaglianze presenti nelle nostre società, come quelle di matrice xenofoba, sono il risultato di precise campagne d’opinione che nel tempo hanno trasformato enormi bugie nella base teorica dei pregiudizi di molti. Simone Fontana scrive su Wired che addirittura alcuni degli eventi più rilevanti degli ultimi anni sono potuti accadere anche grazie al decisivo contributo di notizie manipolate e operazioni di disinformazione su larga scala.

Per capire come funziona questo meccanismo non serve andare lontano. Ad esempio, in Italia è da anni che gli stereotipi più diffusi su migranti e rifugiati, come il fatto che godono di alberghi di lusso e 35 euro al giorno, pretendono il wi-fi e portano criminalità, sono utilizzati da alcuni politici per manipolare il consenso. Sono tutte fake news e pur essendo facilmente smentibili hanno un impatto molto forte sull’opinione pubblica.

Del resto è proprio questa la forza delle fake news: la disinformazione fa leva sulle paure e sugli stereotipi per alimentare pregiudizi e polarizzare il dibattito. Inoltre, se questa manipolazione è sfruttata, se non prodotta, da una parte della politica, è inevitabile che abbia un’importante influenza sulla vita delle persone coinvolte e sul modo che gli elettori hanno di vedere il mondo. Ed è anche grazie a queste manipolazioni che l’opinione pubblica sostiene o meno campagne a favore o contro determinate proposte di legge o politiche.

I meccanismi di disinformazione basati sulle fake news e sulla semplificazione di vicende complesse ai quali siamo continuamente sottoposti sono gli stessi che animano le teorie del complotto.

Il celebre storico Yuval Noah Harari spiega che le teorie del complotto non sono state inventate da QAnon, ma esistono da migliaia di anni e la loro forza si trova nella semplificazione della realtà. Di fronte a guerre, rivoluzioni, crisi e pandemie quando si crede in una teoria del complotto sotto questa miriade di eventi complessi si nasconde un unico gruppo sinistro che controlla il mondo.

Le teorie del complotto sono quindi in grado di attrarre un gran numero di seguaci proprio perché offrono una spiegazione unica e diretta a innumerevoli processi complicati offrendo la confortante sensazione di capire tutto. Non solo, credere in una teoria del complotto offre l’ingresso in un circolo esclusivo – il gruppo di persone che capiscono. Al di sopra non solo dell’uomo medio ma anche dell’élite intellettuale e della classe dirigente che trascura, o nasconde, la verità.

La guerra in Siria? Non ho bisogno di studiare la storia del Medio Oriente per capire cosa sta succedendo lì. Fa parte della grande cospirazione. Lo sviluppo della tecnologia 5G? Non ho bisogno di fare alcuna ricerca sulla fisica delle onde radio. È la cospirazione. La pandemia di Covid-19? Non ha niente a che fare con ecosistemi, pipistrelli e virus. Fa ovviamente parte della cospirazione.

Seguendo questo ragionamento, Harari sostiene che anche il nazismo era fondamentalmente una teoria del complotto basata su una bugia antisemita: «Una cabala di finanzieri ebrei domina segretamente il mondo e sta tramando per distruggere la razza ariana. Hanno architettato la rivoluzione bolscevica, gestiscono le democrazie occidentali e controllano i media e le banche. Solo Hitler è riuscito a vedere attraverso tutti i loro trucchi nefasti – e solo lui può fermarli e salvare l’umanità».

Hitler ha intercettato lo stato d’animo di generale frustrazione che serpeggiava nel popolo tedesco e il desiderio di riscatto dopo l’esito della Prima Guerra Mondiale e la Grande Depressione ed è stato capace di trovare una spiegazione unica e diretta al malumore tedesco: l’enorme bugia antisemita.

Se le teorie del complotto sono basate su enormi bugie, allora perché in tanti ci credono?

Sempre lo storico israeliano Harari spiega che anche se ci sono molte cospirazioni reali nel mondo – individui, società, organizzazioni, chiese, fazioni e governi – che covano e perseguono costantemente vari complotti, esse non fanno parte di un unico complotto globale e la loro molteplicità rende impossibile pensare che prevedano e controllino il mondo nella sua interezza.

In sostanza, il mondo è molto più complicato di come è dipinto da una teoria del complotto e infatti le ragioni che portano a credere in una di esse non sono di carattere razionale ma psicologico.

La prima ragione, già menzionata, è legata al fatto che credere in una teoria del complotto fa sentire le persone “speciali” perché più informate degli altri su eventi sociali e politici importanti.

Tra gli fattori che avvicinano alle teorie del complotto, Focus riconosce la tendenza che ogni essere umano ha a distinguere pattern ricorrenti e regolarità anche dove non ci sono. Una qualità che ci ha aiutati per millenni a salvarci dai predatori ma che può portare a percepire imbrogli e raggiri anche dove non esistono.

Influisce anche il bisogno di ricercare continuamente l’approvazione sociale. Spesso sembra più conveniente risultare socialmente interessanti e desiderabili che dire cose corrette, soprattutto se molti amici e contatti la pensano in un determinato modo.

A questo si collega anche il bias di conferma, cioè la tendenza a cercare sempre la conferma dei propri pensieri e idee quando ci si confronta con gli altri. Se il metodo scientifico ha il compito di contrastare questo pregiudizio, ad esempio i politici e i quotidiani che si decide di seguire “perché dicono le cose come stanno” non faranno che confermarlo.

Dunque, le teorie del complotto non sono razionali, proprio perché sono basate su una enorme bugia, e spesso la scelta di credere in una di esse è collegata all’approvazione sociale. Ciò significa che le teorie del complotto sono sostenute dalle persone che in esse credono, non dai fatti o dalla logica.

Per contrastare il fenomeno del cospirazionismo non basta allora saper individuare le teorie del complotto. Infatti quando la disinformazione diventa la cifra dell’appartenenza a un gruppo sociale è molto più difficile dissuadere con prove scientifiche le persone dalle loro false credenze, proprio perché queste ultime sono fondate sul piano relazionale ed emotivo e non sul pensiero logico e razionale tipico della scienza.

Immagine “The Pigpen Cipher” di Matthew Phelan.

L’equivoco della libertà

Diritto alla non discriminazione per sesso, identità di genere, orientamento sessuale, disabilità, possibilità di ricorrere all’eutanasia, cannabis legale, diritto ad abortire, libertà di vestirsi come si vuole, … Su questi temi oggi siamo di fronte a un equivoco della libertà guidato dal mantra «la mia libertà finisce dove inizia la tua». Una frase spesso utilizzata a discapito dei diritti che vorrebbe difendere.

Come parte di una società dovremmo invece ricordarci che la nostra libertà inizia e finisce dove inizia e finisce la libertà dell’altro.

Cosa vuol dire?

Vuol dire che la libertà è come l’amore: con due figli l’amore si moltiplica, non si divide. Allo stesso modo più libertà e diritti ci sono per tutti più libertà e diritti ci sono per me.

Dobbiamo imparare a riconoscere come la nostra libertà sia anche quella dell’altro e viceversa. Se lo capiamo, il miglioramento delle condizioni di ciascuno sarà miglioramento delle condizioni tutti e opportunità di sviluppo per tutta la società.

Smart working: alcune idee per lavorare meglio

Nel 2019 lo smart working riguardava circa 570mila lavoratori, il 20% in più dell’anno precedente. Il fenomeno riguardava soprattutto le grandi imprese (58%), meno le Pmi (12%) e la PA (16%), con una media di un giorno in smart working alla settimana.

Durante il lockdown in Italia gli smart worker sono diventati oltre 6,58 milioni, ridotti a 5,06 milioni in settembre. Il 94% delle PA, il 97% delle grandi imprese e il 58% delle Pmi hanno dato ai propri dipendenti la possibilità di lavorare da remoto.

L’uso limitato degli ammortizzatori sociali per i lavoratori in smart working può far risparmiare denaro pubblico e quindi avere un vantaggio positivo per la comunità. Inoltre, l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano ha osservato che tra i maggiori benefici vi sono il miglioramento dell’equilibrio tra vita professionale e privata e un maggior coinvolgimento dei dipendenti.

Esistono però sono rischi e criticità che ricadono sui lavoratori da non sottovalutare. Oltre al lavoro straordinario non retribuito, ci sono la percezione di isolamento, le distrazioni esterne, i problemi di comunicazione e collaborazione virtuale e la barriera tecnologica.

Alcune idee per lavorare meglio in smart working

Nell’articolo Otto spunti per uno smart working meno faticoso e più soddisfacente di Luciano Barrilà e Graziano Maino pubblicato su Secondo Welfare ci sono alcuni suggerimenti interessanti:

  1. Adottare un’agenda digitale condivisa;
  2. Stabilire e rispettare i limiti di tempo;
  3. Rimanere connessi (ma non iperconnessi);
  4. Quando possibile, fare ufficio virtuale;
  5. Allestire spazi dedicati;
  6. Prendersi cura della propria salute e sicurezza;
  7. Condividere le esperienze e imparare;
  8. Avere un piano di lavoro flessibile.

Oltre a questi, potrebbe essere utile aggiungere altre indicazioni, come definire una serie di regole condivise con tutti. Esperto Lavoro ad esempio suggerisce di avere indicazioni chiare rispetto agli orari:

  1. Non iniziare i meeting prima delle 9.00 e non andare oltre le 18.00;
  2. Non organizzare meeting nella pausa pranzo tra le 13.00 e le 14.30;
  3. Non organizzare meeting al venerdì pomeriggio;
  4. Non inviare mail dopo le 20.00.

Per lavorare in modo efficace quando ci si trova in smart working è importante anche gestire bene gli orari di lavoro anche introducendo pause. Può essere utile fare due passi oppure sperimentare tecniche di produttività, come la tecnica del «pomodoro» che prevede ogni 25 minuti una pausa di 5 minuti.

L’Italia e l’utopia del salario minimo

Credo onestamente che le argomentazioni economiche contro l’immigrazione siano di importanza secondaria. Anzi, che siano praticamente irrilevanti

David Card

David Card ha vinto l’11 ottobre il premio Nobel per l’economia insieme a Joshua Angrist e Guido Imbens.

Card è un professore di economia presso l’università di Berkeley, in California, specializzato in economia del lavoro. Il suo studio più importante ha contribuito a dimostrare, in maniera empirica, come l’aumento del salario minimo non comporti una diminuzione dei posti di lavoro.

Inoltre, Card è riuscito a dimostrare, tramite una comparazione tra Stati Uniti e Canada, come i salari vengano influenzati per nulla, o solo in maniera marginale, dall’immigrazione.

La posizione dell’Unione Europea sul salario minimo

È da anni che l’Unione Europea vuole accelerare sul salario minimo invitando i Paesi che hanno già un salario minimo obbligatorio “a verificarne l’adeguatezza”, e Paesi come l’Italia che puntano sulla contrattazione collettiva, a garantire un minimo anche ai lavoratori non coperti.

Una svolta è avvenuta il 28 ottobre 2020, quando la Commissione Europea ha proposto una direttiva per garantire che i lavoratori nell’Unione Europea siano protetti da salari minimi adeguati che consentano una vita decente ovunque lavorino.

Un anno dopo, la vittoria da parte di David Card del premio Nobel per l’economia è stata infatti accolta con favore da chi nella Commissione Europea sta lavorando sulla direttiva.

In Italia il salario minimo è ancora un’utopia

Il salario minimo in Italia non è stato nemmeno inserito nel Pnrr e i discorsi sul salario minimo vengono continuamente e in modo erroneo confusi dai sindacati con quelli sulla contrattazione collettiva. Per questa ragione la proposta di introduzione salta sempre, anche se il salario minimo potrebbe risolvere molti problemi.

Oggi, con il 26% di lavoratori poveri non può permettersi di riscaldare la loro casa, l’Italia è uno dei paesi che si trova più in alto nella classifica europea (si trova alla posizione #6). La media europea di lavoratori poveri che non può accendere il riscaldamento è del 15%. L’introduzione del salario minimo non dovrebbe mai lasciare i lavoratori preoccupati di accendere il riscaldamento.

Il salario minimo permetterebbe di affrontare anche alcune delle difficoltà legate al reddito di cittadinanza. Sembra infatti che molti italiani preferiscano continuare a percepire il reddito di cittadinanza invece di accettare lavori con stipendi da fame. Introducendo il salario minimo e riparametrando il reddito di cittadinanza in funzione di esso il problema sarebbe parzialmente risolto – resta ancora in campo il non banale lavoro sommerso.

Pensiamo anche a tutte quelle professioni il cui lavoro non è ancora inserito in un contratto collettivo ad hoc, come quelle dei lavoratori su piattaforma, ad esempio i riders. Se ci fosse un salario minimo in tutti questi anni il pagamento a cottimo e una serie di altri comportamenti scorretti da parte delle piattaforme si sarebbero evitati. Sui rapporti di lavoro avrebbe poi avuto il compito di intervenire la contrattazione collettiva per negoziare condizioni di lavoro adeguate.

#DemocratizingWork: verso un modello di lavoro sostenibile

Un lavoro (in)sostenibile

Il 40% dei lavoratori vuole licenziarsi entro l’anno: il peso del burnout è in aumento.

La pandemia ha fatto luce su molte contraddizioni della nostra società, accelerando processi già in atto, come un intollerabile squilibrio economico basato su una cultura del lavoro performativo che antepone la produzione e il profitto al benessere fisico e psicologico delle persone.

Bisogna recuperare la dimensione etica del lavoro, il senso del limite. Il limite delle ore lavorate, delle attività erogate, dei rischi da correre, del salario da accettare, delle risorse da usare… Sia nella dimensione analogica che digitale è importante fare scelte consapevoli. Non va sottovalutato infatti anche il ruolo della responsabilità individuale: spesso sono utenti e clienti con le loro scelte nel mercato ad alimentare impieghi di cattiva qualità che poi diventano quella domanda di lavoro non qualificato di cui si lamentano.

Per contrastare questo fenomeno è necessario intervenire per un lavoro più giusto, che risponda ai bisogni delle persone e non del mercato. La sfida per una crescita diversa non passa quindi solo dalla transizione digitale ed ecologica, ma anche da un modello di sviluppo socialmente e umanamente sostenibile.

#DemocratizingWork

A maggio 2020 in piena crisi pandemica, tre accademiche e attiviste hanno lanciato un Manifesto basato su tre semplici idee: «È tempo di democratizzare le imprese, demercificare il lavoro e decarbonizzare l’ambiente».

Oggi quel Manifesto è stato firmato da più di 5.000 ricercatori di oltre 700 università di tutti i continenti, è stato pubblicato in 43 giornali di 36 paesi del mondo e tradotto in un totale di 27 lingue e ha dato origine a un movimento mondiale che dal 5 al 7 ottobre si è riunito nel Global Forum on #DemocratizingWork.

Il Global Forum ha visto 3.000 partecipanti provenienti da 85 paesi, quasi 400 relatori distribuiti tra plenarie e 16 capitoli nazionali per un totale di 129 panel tenuti in 9 lingue.

Anche il comitato scientifico italiano ha organizzato una serie di incontri e il confronto è ancora in corso. Se volete restare informati o entrare a far parte del comitato scientifico italiano potete scrivere a: democratizingwork2021it@gmail.com.