Gli scandali di Uber e l’altro volto della sharing economy

«È ormai chiaro che i valori e l’idea di leadership che hanno caratterizzato la mia carriera non sono allineati con quello che ho visto e sperimentato in Uber. Non posso continuare a vestire i panni di presidente del business ride sharing», con queste parole Jeff Jones ha lasciato il ruolo di Presidente di Uber.

Toccata dall’ennesimo scandalo sessuale, il colosso da 62 miliardi di dollari ha visto la partenza del suo uomo di punta dopo solo sei mesi. Uno scandalo che va a sommarsi alle difficoltà che l’azienda sta subendo nell’affrontare anche i moti di rivolta dei tassisti, che se in Italia protestano da inizio 2017, in Francia hanno già impugnato i cartelli un anno prima e negli Stati Uniti da ben due anni.

La nuova crepa apertasi nella società americana mostra ancora una volta il doppio volto di questi giganti della sharing economy. Se, da un lato, essi offrono un servizio che amplia la concorrenza e favorisce quindi i consumatori, dall’altro non mancano le criticità rispetto ai diritti dei lavoratori, spesso infranti in favore di una concorrenza che diventa sleale.

In un sistema impermeabile alla concorrenza, dove le leggi rispecchiano una struttura salariale basata sul sistema dell’industria classica, a rimetterci sono prima di tutto i lavoratori. Per una società come Uber non valgono regole sul riposo o le indennità in caso di incidente o malattia: l’autista lavora quanto vuole, quando vuole, o meglio, finché riesce, e tanto basta.

I diritti dei lavoratori vengono messi in secondo piano favorendo gli antichi problemi di discriminazione e abusi nei loro confronti, come dimostrano anche gli scandali sessuali non poco frequenti a Uber.

Del resto, nella società americana non mancano nemmeno scandali legati a strategie aziendali poco trasparenti. Un esempio è stato l’obbligo a rinunciare all’utilizzo di una tecnologia che avrebbe permesso agli autisti di Uber di evitare la polizia nei paesi dove l’attività non è ancora autorizzata.

In un mondo ideale i sistemi basati sull’economia collaborativa potrebbero essere un ottimo strumento per meglio far incontrare domanda e offerta e contrastare il lavoro in nero. Ad oggi, però, diventano spesso nuovi modi per aggirare una legge obsoleta a favore del migliore guadagno. Nascono così le proteste di lavoratori che si vedono tagliare fette di mercato, come i tassisti, da gruppi internazionali – non dimentichiamo l’emergente Heetch – che non rispettano il lavoro e i lavoratori e si muovono sulle ambiguità della legislazione, se non del tutto oltre essa.

Tutto questo è colpa di giganti come Uber o Airbnb? Oppure di una rigidità legislativa?

Parafrasando Aristotele, la verità si trova nel mezzo. Il successo delle società della sharing economy mostra che esse sono effettivamente in grado di rispondere alle esigenze del mercato. Ma se questo non giustifica l’infrazione delle leggi, d’altro canto leggi nazionali e internazionali in grado di regolamentare la loro attività tardano ad arrivare.

Ironia della sorte, la strada da fare è ancora lunga. Quello che intanto possiamo fare noi consumatori è chiederci, ogni volta che mettiamo mano al portafoglio, chi stiamo finanziando e se davvero valga la pena di spendere qualche euro in meno invece che proteggere qualche diritto in più.

 

Foto: manifestazione dei tassisti di Portland (USA) contro Uber nel gennaio 2015.

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