Le fake news che ostacolano la risoluzione dei conflitti

Con lo scoppio della guerra tra Israele e Hamas, numerosi video e foto di notizie diventati virali si sono poi rivelati falsi (alcuni esempi qui e qui).

I social network, grazie alla loro struttura, si sono trasformati in potenti strumenti di diffusione delle notizie, capaci di rendere virale qualsiasi contenuto in poco tempo. Nel corso degli anni, sono stati appositamente manipolati per creare condizioni favorevoli alla diffusione di informazioni “orientate”, cioè costruite con il preciso scopo di fornire una visione della realtà adatta alle proprie esigenze. Questa manipolazione ha portato anche alla creazione di video e foto falsi, pensati per confondere l’opinione pubblica, e di account creati ad hoc per diffondere disinformazione e propaganda.

Le cosiddette fake news, se accettate come verità, hanno il potere di alimentare l’odio, scatenare reazioni violente e accentuare le divisioni, rendendo estremamente difficile raggiungere una soluzione pacifica ai conflitti. Inoltre, ostacolano gli sforzi per risolvere i conflitti, in quanto rendono difficile la creazione di una base di conoscenze condivise su cui fondare i negoziati e le iniziative diplomatiche.

Per evitare di cadere in queste trappole, è fondamentale verificare attentamente la fonte delle informazioni e cercare prove concrete che confermino quanto riportato. Ciò può essere fatto ricercando fonti affidabili, verificando le dichiarazioni ufficiali delle autorità competenti e confrontando le informazioni provenienti da fonti diverse.

In un’epoca in cui la disinformazione è molto diffusa, la cautela e la ricerca della verità sono fondamentali per comprendere appieno il mondo che ci circonda.

Foto di FactaNews.

Buon Primo Maggio

Questo è lo studio di Francis Bacon conservato in un museo di Dublino dopo essere stato ricostruito pezzo per pezzo.

Qui l’artista ha dipinto le sue opere per decenni, stratificando libri, schizzi e persino dipinti. Tanto che un dipinto ora esposto nel museo è stato rinvenuto postumo sotto carte e tele bianche.

Solo in questo atelier l’artista riusciva a esprimersi al meglio e a lavorare.

Sì, perché l’attività di Francis Bacon, come quella di ogni altro artista, è stata per lui un lavoro. Non una semplice espressione di una passione o di sé stesso.

In questo studio ha dipinto e ridipinto, rifatto, sbagliato, riprovato, studiato, inventato. Probabilmente si è anche arrabbiato, ha gioito, ha provato soddisfazione e frustrazione. Come ogni persona che compie un lavoro con il cuore, le mani e la mente.

Buon Primo Maggio a tutt* i lavoratori e alle lavoratrici, ma soprattutto agli artisti e alle artiste e al loro lavoro che spesso non viene considerato come tale, ma che ci regala una comprensione più alta della nostra vita.

L’ONU ratifica il ruolo dell’Economia Sociale e Solidale per gli SDGs

Il 18 aprile è stata una giornata storica per l’Economia Sociale e Solidale, perché l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha votato la risoluzione A/77/L.60 che riconosce il ruolo dell’ESS nell’attuazione degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile.

L’ESS è definita dalla risoluzione come “imprese, organizzazioni e altre entità impegnate in attività economiche, sociali e ambientali, che servono l’interesse collettivo e/o generale”.

La risoluzione aggiunge che queste attività si basano sui principi di “cooperazione volontaria e aiuto reciproco, governance democratica e/o partecipativa, autonomia e indipendenza e primato delle persone e degli scopi sociali sul capitale nella distribuzione e nell’utilizzo delle eccedenze e/o dei profitti”.

La risoluzione riconosce come l’ESS possa contribuire agli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs) e incoraggia gli Stati membri delle Nazioni Unite a promuovere e attuare strategie, politiche e programmi nazionali, locali e regionali per sostenere e potenziare l’ESS.

Nel riconoscere questa risoluzione, l’Alleanza Cooperativa Internazionale ha svolto un ruolo importante come osservatore della Task Force delle Nazioni Unite sull’ESS.

Giornata Internazionale delle Donne

Celebro la Giornata Internazionale delle Donne (no, non è una festa) ricordando quanto è importante essere sempre sé stesse.

Quante volte ci hanno detto (o ci siamo dette) che non andiamo bene, che non siamo adatte al ruolo che abbiamo, che non otterremo i risultati, che potremmo fare meglio. Quante volte abbiamo accettato di fare l’impossibile per avere approvazione (e ce l’abbiamo fatta magari perdendo la salute). Quante volte siamo state titubanti di fronte a una promozione o a un nuovo incarico o non siamo prese sul serio quando pretendiamo un riconoscimento. Quante volte ci hanno giudicato solo per il nostro aspetto fisico senza ascoltare le nostre parole. Quante volte hanno usato con noi appellativi come “tesoro” o “principessa” mentre gli uomini sono tutti dottori e signori (e se siamo dottoresse se va bene siamo signore o signorine).

Quante volte questo succede proprio perché siamo donne? Quante volte mandiamo giù e facciamo finta di niente?

Spesso accade soprattutto quando le relazioni di potere sono asimmetriche, ma è proprio questo il punto: restare coerenti con il proprio percorso soprattutto quando c’è maggiore asimmetria.

Questo non vuol solo dire “non comportarsi sempre bene”, ma anche comprendere di avere in sé il potere di cambiare l‘andamento delle cose.

#stopwars

Siamo a un anno da una guerra terrificante in piena Europa e ancora non se ne vede la fine.

Un anno fa, come molte persone, ho pianto per questa guerra, e così molte altre volte in questo lungo anno. Ho pianto per la paura, la rabbia, lo sgomento.

Sono una pacifista radicale e credo nelle persone che protestano pacificamente, negli obiettori e nel supporto che, anche a distanza, possiamo dare a coloro, russi o ucraini, che decidono di non imbracciare le armi.

Credo nei popoli che meritano la pace, poiché nessun motivo giustifica la guerra, nessuna, e auspico che i potenti del mondo arrivino al più presto a un accordo di cessate il fuoco.

Sogno un mondo senza guerre, nel quale invece di spendere in armi si spende in istruzione, cultura, ambiente e welfare.

Il mio impegno quotidiano guarda a questi alti obiettivi, perché solo puntando molto in alto possiamo agire il cambiamento che vorremmo vedere nel mondo.

Capitol Hill: il ruolo di Facebook nella diffusione di false notizie sulle elezioni presidenziali truccate

I gruppi di Facebook hanno giocato un ruolo fondamentale per diffondere false notizie sul fatto che le elezioni presidenziali fossero truccate. Dal giorno delle elezioni all’assedio del 6 gennaio al Campidoglio si contano almeno 650.000 post che attaccano la legittimità della vittoria di Joe Biden. Si tratta di circa 10.000 attacchi giornalieri sulle elezioni che mostrano il peso di Facebook nella diffusione di false narrazioni che hanno fomentato la violenza quel giorno.

Fonte: L’indagine di ProPublica e The Washington Post.

Facebook ha promosso fortemente i gruppi da quando il CEO Mark Zuckerberg li ha resi una priorità strategica nel 2017.

Alcuni ex-dipendenti di Facebook hanno spiegato che i gruppi sono fondamentali per la capacità dell’azienda di mantenere il più possibile impegnata una base di utenti stagnante negli Stati Uniti e aumentare così le sue entrate, che hanno raggiunto quasi $ 86 miliardi nel 2020.

I gruppi incentrati sulla politica degli Stati Uniti sono però diventati così tossici, dicono proprio alcuni ex-dipendenti di Facebook, che la società ha istituito una task force specificamente per sorvegliarli prima dell’Election Day 2020 e la cui esistenza è venuta a galla proprio grazie agli eventi di Capitol Hill.

Il problema è che proprio perché i gruppi sono diventati sempre più importanti per la strategia di Meta, gli sforzi di moderazione della società sono stati deboli, incoerenti e fortemente dipendenti dal lavoro degli amministratori di ogni gruppo. Come sappiamo, gli amministratori dei gruppi non sono pagati per eseguire il noioso lavoro di revisione dei messaggi e rimozione di coloro che violano le regole e le politiche aziendali di Facebook. Inoltre, molti gruppi hanno centinaia di migliaia, se non milioni, di membri, elemento che rende ancora più difficile controllare e moderare effettivamente i post.

Considerando che spesso sono gli stessi amministratori dei gruppi a credere nelle teorie cospirative sulle elezioni o, ad esempio, a questionare la sicurezza dei vaccini contro il Covid-19, gli ex-dipendenti di Facebook affermano che raramente il controllo fatto dagli amministratori è affidabile. Allo stesso modo, gli strumenti automatizzati, come quelli che cercano termini particolari che indicano violazioni delle politiche, sono spesso inefficaci e facilmente elusi dagli utenti semplicemente digitando le parole chiave in modo sbagliato.

Anche se un ruolo è stato giocato anche da social media più piccoli, dove le persone si sono confrontate per preparare l’attacco a Capitol Hill, Facebook è stato anche utilizzato direttamente da Donald Trump come piattaforma chiave per sostenere la falsa teoria dei brogli elettorali. Almeno fino a quando non è stato bandito il 6 gennaio. Queste bugie sono poi state riprese all’interno dei gruppi dando loro una forza enorme e trasformando Facebook in uno strumento centrale per promuovere le idee che hanno alimentato la violenza del 6 gennaio.

Il problema fondamentale di Facebook è che non riconosce l’esistenza di un problema fino a quando non sono stati causati danni enormi. Qui gli esempi si moltiplicano.


Solo dopo mesi dalle elezioni presidenziali del 2016, Facebook ha scoperto una campagna di un’agenzia con sede in Russia che ha diffuso contenuti iperpartitici e disinformazione in vista delle elezioni. La stessa lentezza è emersa quando i leader militari del Myanmar hanno usato Facebook per istigare a stupri, omicidi e migrazioni forzate della minoranza Rohingya. Facebook si è scusato per i fallimenti in entrambi i casi.

La risposta di Facebook alle elezioni presidenziali è stata altrettanto lenta. Le discussioni sono state lunghe e i dati raccolti da ProPublica e The Post mostra che Facebook ha agito in modo aggressivo e completo solo dopo l’attacco a Capitol Hill.

Alla fine, la task force di Facebook ha rimosso quasi 400 gruppi i cui post erano stati visti quasi 1 miliardo di volte prima del giorno delle elezioni. Mesi dopo la violazione del Campidoglio, Facebook stava ancora lavorando per rimuovere centinaia di gruppi politici che violavano le politiche aziendali.

Foto: 2021 assalto al Campidoglio degli Stati Uniti.

Le teorie del complotto e il terreno fertile della disinformazione

Perché è così difficile dissuadere i complottisti dalle loro idee? Come mai in tanti si avvicinano alle teorie del complotto e, soprattutto, come mai finiscono per crederci? Sono domande che spesso mi sono posta e alle quali provo a dare una risposta in questo articolo.

La maggior parte delle disuguaglianze presenti nelle nostre società, come quelle di matrice xenofoba, sono il risultato di precise campagne d’opinione che nel tempo hanno trasformato enormi bugie nella base teorica dei pregiudizi di molti. Simone Fontana scrive su Wired che addirittura alcuni degli eventi più rilevanti degli ultimi anni sono potuti accadere anche grazie al decisivo contributo di notizie manipolate e operazioni di disinformazione su larga scala.

Per capire come funziona questo meccanismo non serve andare lontano. Ad esempio, in Italia è da anni che gli stereotipi più diffusi su migranti e rifugiati, come il fatto che godono di alberghi di lusso e 35 euro al giorno, pretendono il wi-fi e portano criminalità, sono utilizzati da alcuni politici per manipolare il consenso. Sono tutte fake news e pur essendo facilmente smentibili hanno un impatto molto forte sull’opinione pubblica.

Del resto è proprio questa la forza delle fake news: la disinformazione fa leva sulle paure e sugli stereotipi per alimentare pregiudizi e polarizzare il dibattito. Inoltre, se questa manipolazione è sfruttata, se non prodotta, da una parte della politica, è inevitabile che abbia un’importante influenza sulla vita delle persone coinvolte e sul modo che gli elettori hanno di vedere il mondo. Ed è anche grazie a queste manipolazioni che l’opinione pubblica sostiene o meno campagne a favore o contro determinate proposte di legge o politiche.

I meccanismi di disinformazione basati sulle fake news e sulla semplificazione di vicende complesse ai quali siamo continuamente sottoposti sono gli stessi che animano le teorie del complotto.

Il celebre storico Yuval Noah Harari spiega che le teorie del complotto non sono state inventate da QAnon, ma esistono da migliaia di anni e la loro forza si trova nella semplificazione della realtà. Di fronte a guerre, rivoluzioni, crisi e pandemie quando si crede in una teoria del complotto sotto questa miriade di eventi complessi si nasconde un unico gruppo sinistro che controlla il mondo.

Le teorie del complotto sono quindi in grado di attrarre un gran numero di seguaci proprio perché offrono una spiegazione unica e diretta a innumerevoli processi complicati offrendo la confortante sensazione di capire tutto. Non solo, credere in una teoria del complotto offre l’ingresso in un circolo esclusivo – il gruppo di persone che capiscono. Al di sopra non solo dell’uomo medio ma anche dell’élite intellettuale e della classe dirigente che trascura, o nasconde, la verità.

La guerra in Siria? Non ho bisogno di studiare la storia del Medio Oriente per capire cosa sta succedendo lì. Fa parte della grande cospirazione. Lo sviluppo della tecnologia 5G? Non ho bisogno di fare alcuna ricerca sulla fisica delle onde radio. È la cospirazione. La pandemia di Covid-19? Non ha niente a che fare con ecosistemi, pipistrelli e virus. Fa ovviamente parte della cospirazione.

Seguendo questo ragionamento, Harari sostiene che anche il nazismo era fondamentalmente una teoria del complotto basata su una bugia antisemita: «Una cabala di finanzieri ebrei domina segretamente il mondo e sta tramando per distruggere la razza ariana. Hanno architettato la rivoluzione bolscevica, gestiscono le democrazie occidentali e controllano i media e le banche. Solo Hitler è riuscito a vedere attraverso tutti i loro trucchi nefasti – e solo lui può fermarli e salvare l’umanità».

Hitler ha intercettato lo stato d’animo di generale frustrazione che serpeggiava nel popolo tedesco e il desiderio di riscatto dopo l’esito della Prima Guerra Mondiale e la Grande Depressione ed è stato capace di trovare una spiegazione unica e diretta al malumore tedesco: l’enorme bugia antisemita.

Se le teorie del complotto sono basate su enormi bugie, allora perché in tanti ci credono?

Sempre lo storico israeliano Harari spiega che anche se ci sono molte cospirazioni reali nel mondo – individui, società, organizzazioni, chiese, fazioni e governi – che covano e perseguono costantemente vari complotti, esse non fanno parte di un unico complotto globale e la loro molteplicità rende impossibile pensare che prevedano e controllino il mondo nella sua interezza.

In sostanza, il mondo è molto più complicato di come è dipinto da una teoria del complotto e infatti le ragioni che portano a credere in una di esse non sono di carattere razionale ma psicologico.

La prima ragione, già menzionata, è legata al fatto che credere in una teoria del complotto fa sentire le persone “speciali” perché più informate degli altri su eventi sociali e politici importanti.

Tra gli fattori che avvicinano alle teorie del complotto, Focus riconosce la tendenza che ogni essere umano ha a distinguere pattern ricorrenti e regolarità anche dove non ci sono. Una qualità che ci ha aiutati per millenni a salvarci dai predatori ma che può portare a percepire imbrogli e raggiri anche dove non esistono.

Influisce anche il bisogno di ricercare continuamente l’approvazione sociale. Spesso sembra più conveniente risultare socialmente interessanti e desiderabili che dire cose corrette, soprattutto se molti amici e contatti la pensano in un determinato modo.

A questo si collega anche il bias di conferma, cioè la tendenza a cercare sempre la conferma dei propri pensieri e idee quando ci si confronta con gli altri. Se il metodo scientifico ha il compito di contrastare questo pregiudizio, ad esempio i politici e i quotidiani che si decide di seguire “perché dicono le cose come stanno” non faranno che confermarlo.

Dunque, le teorie del complotto non sono razionali, proprio perché sono basate su una enorme bugia, e spesso la scelta di credere in una di esse è collegata all’approvazione sociale. Ciò significa che le teorie del complotto sono sostenute dalle persone che in esse credono, non dai fatti o dalla logica.

Per contrastare il fenomeno del cospirazionismo non basta allora saper individuare le teorie del complotto. Infatti quando la disinformazione diventa la cifra dell’appartenenza a un gruppo sociale è molto più difficile dissuadere con prove scientifiche le persone dalle loro false credenze, proprio perché queste ultime sono fondate sul piano relazionale ed emotivo e non sul pensiero logico e razionale tipico della scienza.

Immagine “The Pigpen Cipher” di Matthew Phelan.

L’equivoco della libertà

Diritto alla non discriminazione per sesso, identità di genere, orientamento sessuale, disabilità, possibilità di ricorrere all’eutanasia, cannabis legale, diritto ad abortire, libertà di vestirsi come si vuole, … Su questi temi oggi siamo di fronte a un equivoco della libertà guidato dal mantra «la mia libertà finisce dove inizia la tua». Una frase spesso utilizzata a discapito dei diritti che vorrebbe difendere.

Come parte di una società dovremmo invece ricordarci che la nostra libertà inizia e finisce dove inizia e finisce la libertà dell’altro.

Cosa vuol dire?

Vuol dire che la libertà è come l’amore: con due figli l’amore si moltiplica, non si divide. Allo stesso modo più libertà e diritti ci sono per tutti più libertà e diritti ci sono per me.

Dobbiamo imparare a riconoscere come la nostra libertà sia anche quella dell’altro e viceversa. Se lo capiamo, il miglioramento delle condizioni di ciascuno sarà miglioramento delle condizioni tutti e opportunità di sviluppo per tutta la società.

Smart working: alcune idee per lavorare meglio

Nel 2019 lo smart working riguardava circa 570mila lavoratori, il 20% in più dell’anno precedente. Il fenomeno riguardava soprattutto le grandi imprese (58%), meno le Pmi (12%) e la PA (16%), con una media di un giorno in smart working alla settimana.

Durante il lockdown in Italia gli smart worker sono diventati oltre 6,58 milioni, ridotti a 5,06 milioni in settembre. Il 94% delle PA, il 97% delle grandi imprese e il 58% delle Pmi hanno dato ai propri dipendenti la possibilità di lavorare da remoto.

L’uso limitato degli ammortizzatori sociali per i lavoratori in smart working può far risparmiare denaro pubblico e quindi avere un vantaggio positivo per la comunità. Inoltre, l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano ha osservato che tra i maggiori benefici vi sono il miglioramento dell’equilibrio tra vita professionale e privata e un maggior coinvolgimento dei dipendenti.

Esistono però sono rischi e criticità che ricadono sui lavoratori da non sottovalutare. Oltre al lavoro straordinario non retribuito, ci sono la percezione di isolamento, le distrazioni esterne, i problemi di comunicazione e collaborazione virtuale e la barriera tecnologica.

Alcune idee per lavorare meglio in smart working

Nell’articolo Otto spunti per uno smart working meno faticoso e più soddisfacente di Luciano Barrilà e Graziano Maino pubblicato su Secondo Welfare ci sono alcuni suggerimenti interessanti:

  1. Adottare un’agenda digitale condivisa;
  2. Stabilire e rispettare i limiti di tempo;
  3. Rimanere connessi (ma non iperconnessi);
  4. Quando possibile, fare ufficio virtuale;
  5. Allestire spazi dedicati;
  6. Prendersi cura della propria salute e sicurezza;
  7. Condividere le esperienze e imparare;
  8. Avere un piano di lavoro flessibile.

Oltre a questi, potrebbe essere utile aggiungere altre indicazioni, come definire una serie di regole condivise con tutti. Esperto Lavoro ad esempio suggerisce di avere indicazioni chiare rispetto agli orari:

  1. Non iniziare i meeting prima delle 9.00 e non andare oltre le 18.00;
  2. Non organizzare meeting nella pausa pranzo tra le 13.00 e le 14.30;
  3. Non organizzare meeting al venerdì pomeriggio;
  4. Non inviare mail dopo le 20.00.

Per lavorare in modo efficace quando ci si trova in smart working è importante anche gestire bene gli orari di lavoro anche introducendo pause. Può essere utile fare due passi oppure sperimentare tecniche di produttività, come la tecnica del «pomodoro» che prevede ogni 25 minuti una pausa di 5 minuti.

L’Italia e l’utopia del salario minimo

Credo onestamente che le argomentazioni economiche contro l’immigrazione siano di importanza secondaria. Anzi, che siano praticamente irrilevanti

David Card

David Card ha vinto l’11 ottobre il premio Nobel per l’economia insieme a Joshua Angrist e Guido Imbens.

Card è un professore di economia presso l’università di Berkeley, in California, specializzato in economia del lavoro. Il suo studio più importante ha contribuito a dimostrare, in maniera empirica, come l’aumento del salario minimo non comporti una diminuzione dei posti di lavoro.

Inoltre, Card è riuscito a dimostrare, tramite una comparazione tra Stati Uniti e Canada, come i salari vengano influenzati per nulla, o solo in maniera marginale, dall’immigrazione.

La posizione dell’Unione Europea sul salario minimo

È da anni che l’Unione Europea vuole accelerare sul salario minimo invitando i Paesi che hanno già un salario minimo obbligatorio “a verificarne l’adeguatezza”, e Paesi come l’Italia che puntano sulla contrattazione collettiva, a garantire un minimo anche ai lavoratori non coperti.

Una svolta è avvenuta il 28 ottobre 2020, quando la Commissione Europea ha proposto una direttiva per garantire che i lavoratori nell’Unione Europea siano protetti da salari minimi adeguati che consentano una vita decente ovunque lavorino.

Un anno dopo, la vittoria da parte di David Card del premio Nobel per l’economia è stata infatti accolta con favore da chi nella Commissione Europea sta lavorando sulla direttiva.

In Italia il salario minimo è ancora un’utopia

Il salario minimo in Italia non è stato nemmeno inserito nel Pnrr e i discorsi sul salario minimo vengono continuamente e in modo erroneo confusi dai sindacati con quelli sulla contrattazione collettiva. Per questa ragione la proposta di introduzione salta sempre, anche se il salario minimo potrebbe risolvere molti problemi.

Oggi, con il 26% di lavoratori poveri non può permettersi di riscaldare la loro casa, l’Italia è uno dei paesi che si trova più in alto nella classifica europea (si trova alla posizione #6). La media europea di lavoratori poveri che non può accendere il riscaldamento è del 15%. L’introduzione del salario minimo non dovrebbe mai lasciare i lavoratori preoccupati di accendere il riscaldamento.

Il salario minimo permetterebbe di affrontare anche alcune delle difficoltà legate al reddito di cittadinanza. Sembra infatti che molti italiani preferiscano continuare a percepire il reddito di cittadinanza invece di accettare lavori con stipendi da fame. Introducendo il salario minimo e riparametrando il reddito di cittadinanza in funzione di esso il problema sarebbe parzialmente risolto – resta ancora in campo il non banale lavoro sommerso.

Pensiamo anche a tutte quelle professioni il cui lavoro non è ancora inserito in un contratto collettivo ad hoc, come quelle dei lavoratori su piattaforma, ad esempio i riders. Se ci fosse un salario minimo in tutti questi anni il pagamento a cottimo e una serie di altri comportamenti scorretti da parte delle piattaforme si sarebbero evitati. Sui rapporti di lavoro avrebbe poi avuto il compito di intervenire la contrattazione collettiva per negoziare condizioni di lavoro adeguate.